maria teresa gullino
Interviste

Maria Teresa Gullino: una voce attiva nel mondo delle malattie rare

Maria Teresa affetta dalla sindrome DiGeorge oggi è un esempio di forza, coraggio e determinazione

maria teresa gullino

Maria Teresa Gullino è una giovane donna nata con una malattia genetica rara. La sua storia di determinazione nel trasformare “l’impossibile” in forza e indipendenza, è un grande esempio di coraggio e “rara” bellezza.

Maria Teresa sei nata con una malattia rara, la sindrome DiGeorge altrimenti detta Delezione del cromosoma 22. Nello specifico ci puoi raccontare di cosa si tratta?

Diagnostica al quinto giorno di vita dopo l’operazione dell’arco aortico di tipo b. 

La Sindrome di DiGeorge è una malattia genetica rara, non ereditaria e molto variabile dal punto di vista clinico. Caratterizzata da una microdelezione, cioè la mancanza di un frammento del DNA, del braccio lungo (q) del cromosoma 22.

Tale microdelezione, nel mio caso, ha comportato l’interruzione dell’arco aortico di tipo B, che è stata corretta chirurgicamente ricongiungendo l’aorta, l’arteria più importante del corpo umano, la cui interruzione comportava la non circolazione del sangue agli organi e ai tessuti che si trovavano a valle dell’interruzione.

Dopo l’intervento al cuore, a soli cinque giorni di vita, che bambina sei stata?

I miei parenti mi hanno sempre trattata come una persona speciale, una bambina che aveva bisogno di tante attenzioni. Da piccola non lo capivo, in quanto la mia malattia rendeva le cose più difficili in confronto agli altri bambini, perché tendeva a farmi dimenticare tutto troppo in fretta. A causa della mia distrazione e del non riuscire a stare attenta a ciò che facevo, ero totalmente immersa in un mondo tutto mio, quello della principessa coccolata e amata dai suoi familiari.

Da bambina il mio mondo era fantastico e irreale, quello delle principesse Disney, come “La bella addormentata nel bosco” che si risveglia dopo un bacio dato dal principe azzurro. Io mi sono risvegliata dopo lunghi venticinque anni. Ad un certo punto, il mio cervello ha deciso di accendersi, ho iniziato a prendere la vita con più sicurezza e consapevolezza, a vedere il mondo sotto un altro punto di vista.

marai teresa gullino

Quanto ha significato per te la cicatrice che ti ha lasciato?

Ero solo una bambina, ma lo ricordo molto bene e tutto è cominciato da questo interrogativo guardandomi allo specchio del piccolo bagno di casa: «Mamma che cosa ho qui, sul mio petto?» Lei mi rispose con un tono deciso: «Sei stata operata al cuore avevi pochi giorni».

Quando feci questa domanda avevo cinque o sei anni e, ancora inconsapevole e ignara di quello che potesse essermi accaduto, continuavo a guardare il mondo con gli occhi dell’innocenza.

Che frase per una bimba di quell’età, ma da lì cominciò tutta la mia vita!

Continuavo a non capire bene quel che avessi sul mio petto, perché non era facile spiegare cosa significasse avere una cicatrice che mi sarei portata per tutta la vita.

Non mi rendevo conto di quello che stava succedendo, in quanto ero piccola e perché, dopo un’operazione così delicata come la mia, per entrare a far parte del mondo reale a tutti gli effetti ci è voluto un bel po’.

Tuttavia mia madre, con quella risposta possente, era riuscita a farmi prendere la vita con grande forza, grinta e coraggio.

Sembra un’affermazione banale, ma tutto quello che poi affrontai nel corso degli anni lo devo a lei. Mi ha insegnato che bisogna combattere il mondo a testa alta, con tutta la forza che hai. E ci è riuscita, perché a oggi, quella risposta mi ha dato il coraggio di superare gli ostacoli della vita con sicurezza e tenacia.

Oggi per me questa cicatrice è un segno di forza e resilienza, di consapevolezza e soprattutto non ho paura di mostrarmi per quello che sono perché mi amo.

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Maria Teresa, c’è stato un momento preciso in cui hai capito di dover reagire e trovare un modo per aiutare chi soffre della tua stessa sindrome? Hai trovato ispirazione in qualcuno?

Ho raggiunto il mio primo vero traguardo all’età di ventisei anni, conseguendo la laurea triennale in “Scienze dei servizi giuridici”. Sapevo però nel mio cuore che non aspiravo a fare quello nella vita. Non era mia intenzione fermarmi lì, puntavo al mio vero obiettivo, volevo proseguire con gli studi, perché desideravo diventare un’assistente sociale. Questa mia aspirazione è scaturita vedendo una fiction durante il periodo del covid.

La serie “Mina Settembre” di Serena Rossi, racconta di una assistente sociale che, trasgredendo un po’ le regole del codice deontologico e seguendo i suoi sentimenti, vestita del suo cappotto rosso, voleva salvare tutti.

Decisi di fare come lei, salvare le persone, soprattutto quelle più fragili di me, aiutarle ad andare avanti superando gli ostacoli più duri.

Per arrivare alla laurea ho dovuto lottare, soprattutto per scrivere la tesi, il mio primo traguardo che pensavo non arrivasse mai.

Questi tre anni sono stati duri e molto “lunghi”, in quanto ho avuto difficoltà in alcune materie. Non essendo riuscita a superarle al primo colpo, mi sentivo sconfitta, anche perché mi restava il dubbio se quella sarebbe stata davvero la mia strada.

Ho superato la mia paura con i professori, grazie all’aiuto dei miei genitori che mi davano sempre la forza di andare avanti, mi dicevano che gli ostacoli vanno sempre affrontati.

È stato difficile, perché ho avuto un crollo emotivo e pensavo di non riuscirci.

Cominciai a soffrire di reflusso gastrico, un problema comune a tantissime persone, ma per un periodo, non riuscivo a mangiare e a ingoiare niente.

Ricordo che una volta stavo mangiando del prosciutto crudo e, non riuscendo a ingoiarlo, è prontamente intervenuta mia madre che mi ha praticato la manovra di Heimlich così, grazie al suo aiuto, quella volta andò tutto bene.

Da quel momento però, è stato tutto complicato, perché ero molto spaventata e non riuscivo più a nutrirmi con la serenità di prima.

Tuttavia i miei studi proseguivano con successo, perché ho dato tutti i miei esami, con alti e bassi, riuscendo a scrivere la mia tesi in diritto commerciale, ottenendo il traguardo di 98/110.

Sono felice e orgogliosa di essere arrivata fino a questa prima grande vittoria!

Puoi condividere con noi il percorso di consapevolezza che hai fatto per arrivare ad essere oggi un faro, una voce importante nella comunità delle malattie rare?

Per anni mi sono domandata:

«Che vivo a fare in questo mondo se non servo a niente?»

Frequentavo le scuole medie, quando ho capito di non essere accettata dalle mie compagne di classe. 

Mi sono interrogata per lungo tempo sul perché nessuno riuscisse a capire il mio problema, nonostante fosse visibile a tutti che stavo male, non solo dalle mie compagne di classe, ma anche dagli amici dei miei genitori.

Apparentemente stavo bene. Ho sempre avuto due gambe per poter camminare, due mani con cui disegnare e scrivere, una bocca per mangiare, due orecchie che mi permettono di sentire e due occhi con cui vedere.

In realtà quello che provavo dentro di me nessuno lo ha mai visto. 

Il fatto di stare così “tra le nuvole” mi ha pesato molto, perché nessuno comprendeva fermandosi solo alla normalità del mio aspetto fisico, senza in realtà vedere chi io fossi veramente.

Sembra un paradosso, ma uno dei tanti problemi della mia sindrome era proprio questo: saper ragionare e avere la concentrazione, perché questa malattia può manifestarsi in diversi modi.

Ritengo che nella sfortuna, sono stata fortunata, in quanto ho avuto bisogno dell’operazione al cuore. Mentre avrei potuto nascere con delle caratteristiche facciali particolari, oppure completamente assente a livello di sentimenti e non recepire un abbraccio o un bacio.

Quindi è meglio vivere o morire?

Beh, la risposta all’apparenza sembra essere molto semplice e scontata: ovviamente vivere.

Ma è anche facile arrendersi davanti alle difficoltà, non riuscire a lottare con le persone che non ti capiscono.

Non mi sono mai sentita adeguata, finché ho cominciato a non dare peso ai giudizi degli altri e a pensare con la mia testa e non con quella delle altre persone. È un lavoro difficile, bisogna farlo ogni giorno con i nostri sentimenti, con le paure interiori e con le difficoltà.

Molte volte, per la mia inadeguatezza, volevo solo arrendermi e altrettante volte pensavo di fallire e non farcela; perché è molto più facile arrendersi, chiudere tutto e mettere un punto alla propria vita.

Ho continuato il mio percorso a Roma all’Università Lumsa  nel corso di laurea magistrale in “Programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali” per diventare una assistente sociale.

Come già raccontato, ho intrapreso questa strada proprio grazie alla fiction di Serena Rossi, mi ha colpito molto il fatto di poter aiutare la gente.

È chiaro, quella è un po’ una favola, la protagonista della serie che prova a salvare ogni persona da un caso disperato, come una super eroina della Marvel, ma in quell’occasione ho capito che volevo fare proprio come lei e dare aiuto alle persone.

Sono tornata nella mia città del cuore, nel mio posto magico e sicuro.

Qui sono nata una seconda volta, ho scoperto sempre di più un altro lato del mio carattere che non sapevo di avere. Mi sono confrontata con me stessa, facendomi tanti esami di coscienza, sono entrata in contatto con il mondo reale, tanto ignoto e sconosciuto. 

Ho cominciato dando il primo esame in “Management e valutazione dei servizi sociali”, ottenendo un bellissimo 30/30 che non mi sarei mai aspettata perché, pur avendo studiato, non credevo di prendere un voto così alto da sola e con le mie forze.

Avevo addirittura pensato, prima ancora di iniziare, di mollare promettendo a mio padre che, se l’esame non fosse andato bene, non avrei continuato e sarei tornata nella mia città.

La paura di affrontare una nuova sfida, come l’università da fuori sede, mi terrorizzava e già pensavo di fallire all’inizio della mia carriera. 

Però dopo essermi accomodata su quella sedia dell’aula universitaria, aver affrontato i professori ed essermi sentita dire: «Signorina, questo esame è da 30», sembrava un altro sogno realizzato.

Ancora non mi ero trasferita, ma viaggiavo con il treno dando le prime materie da pendolare. Proprio per questo era abbastanza pesante, perché spostarsi con l’ansia da prestazione mi risultava molto impegnativo. Accadde poi, che una volta affrontati i primi esami, non vedevo l’ora di darne altri.

Continuai così a dare le materie e, anche se non tutti gli esami sono stati da 30, mi sono sempre meritata il voto giusto in base a quanto studiato.

Ero molto felice, perché mentre nella mia città di origine mi conoscevano tutti, qui i professori non sapevano chi fossi.

Ho affrontato tutto con le mie sole forze, senza nessun aiuto esterno e i professori mi hanno valutata per quello che sono e per come ho studiato realmente.

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Che cos’è l’associazione “Aidel 22” (Associazione Italiana Delezione del Cromosoma 22) di cui fai parte?

E’ un’associazione senza scopo di lucro che si dedica a supportare e informare le persone affette dalla sindrome da delezione del cromosoma 22q11.2, le loro famiglie e la comunità scientifica.

L’associazione promuove la ricerca, l’inserimento sociale e la consapevolezza su questa malattia genetica rara.

Nel tuo profilo Instagram parli di fragilità ed inclusione, e diffondi consapevolezza dando spazio a chi convive con malattie rare e disabilità. Hai un buon rapporto con i social?

Ho un buon rapporto con i social, anche se cerco di mettermi delle regole per distaccarmi e non abusarne. 

Sui social cerco di mandare un messaggio diverso dalle altre influencer, cercare di godersi la vita guardando un semplice tramonto o un’alba, fotografarlo e catturare la bellezza di ogni piccola cosa. 

I social non sono la vita, bisogna uscire dagli schermi di un telefono e cercare di vivere nella vita vera essendo inclusi.

C’è un messaggio di speranza e resilienza che vuoi dare qui alle famiglie impegnate nel crescere figli che hanno la tua stessa sindrome?

Si, date tempo e spazio ai vostri figli. Cercate di farli sentire normali senza il peso della malattia e, soprattutto, insegnate loro che siamo tutti diversi e che ogni situazione è soggettiva.

Zanutto Carla

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