Interviste

Giulio Gambino e The Post Internazionale

A tu per tu con Giulio Gambino, fondatore e direttore di The Post Internationale

Giulio Gambino è giovanissimo, poco più che ventenne, quando fonda, insieme ad alcuni amici, The Post Internationale. TPI è una testata giornalistica on-line, è tra le più lette in Italia.

giulio gambino

Su TPI si legge di grandi temi della politica e dell’attualità internazionale in maniera diretta, con uno stile chiaro ed efficace. L’obiettivo primo di Giulio Gambino e del suo team è quello di

raccontare il mondo e fare in modo che lo si conosca così com’è

TPI nasce mentre Giulio Gambino studia a Londra; dopo l’esperienza anglosassone, è stata la volta di quella negli USA, per studiare giornalismo a New York. Oggi vive a Roma, dove si trova quando gli telefono per fargli qualche domanda.

Immagino che quella per il giornalismo sia una passione genetica, che hai ereditato dal nonno. Ho ragione? Hai sempre pensato di prendere questa strada o l’hai scoperta con il tempo?

Inconsciamente, implicitamente sicuramente sì. È una passione legata al nonno (Antonio Gambino, giornalista e tra i fondatori dell’Espresso ndr), però lui non mi ha trasmesso questo mestiere, nel senso che non mi ha insegnato nulla. Sono nato e cresciuto in un ambiente che non fugavo; sicuramente, però, nemmeno lo cercavo, almeno fino ai 19/20 anni. Poi, piano piano, è nata in me una passione che prima non avevo. Questa, però, è stata alimentata anche e soprattutto dagli studi che ho fatto nel Regno Unito: lì ti spronano tantissimo a scrivere.

La scrittura che è il principio del giornalismo non mi è stata insegnata in Italia, ma dal mondo anglosassone. Poi è stato tutto molto naturale, perché leggevo e scrivevo sempre di più e ho capito che mi sarebbe piaciuto scrivere.  Scrivere anche articoli, analisi, opinioni, reportage… e con il tempo ho iniziato a farne sempre di più e ho iniziato a pendere la strada del giornalismo in maniera più coscienziosa e mi si sono aperte più opportunità (certamente le presenze, la famiglia, nomi e persone con cui sono cresciuto sono stati elementi che hanno giocato molto).

Quindi, per rispondere alla tua domanda, posso dire che no, non penso che mio nonno mi abbia scientemente passato la passione per il giornalismo. Il contesto in cui sono cresciuto, però, ha fatto sì che io conoscessi e mi avvicinassi a questo mondo. Nel Regno Unito, infine, ho imparato a scrivere, mi sono messo alla prova e mi hanno bacchettato. E sono diventato un giornalista.

Ognuno di noi ha una propria icona, un modello di riferimento. Il tuo quale è?

Questa domanda, quando mi viene posta, mi mette in crisi.

Non ho modello di riferimento, piuttosto che un altro; sarebbe anche sbagliato prendere a esempio un solo giornalista. Ce ne possono essere tanti a cui ispirarsi, però poi ciascuno deve essere sé stesso. Inoltre, se in un caso come il mio sei il direttore di una testata on-line (oggi ce ne sono pochi di giornali nativi digitali), lavori in un mondo che è abbastanza nuovo e non ti potrei mai dire il nome del direttore di qualche famoso quotidiano. Nessuno di questi fa il mio lavoro!

La sfida di oggi, in un mondo di vecchi, è guardare a noi stessi ed essere noi stessi.

Questo non significa che non ho riferimenti, anzi. Ci sono grandissimi giornalisti, eroi dell’informazione: gente con la scorta, gente tosta e che ci mette grande passione.

Solitamente sei tu ad intervistare grandi personaggi dei nostri tempi. Qual è la parte del tuo lavoro che ti piace di più, scender in campo e fare interviste? O inchieste? O altro?

Sinceramente mi piace molto intervistare e anche fare qualche inchiesta: scendere in campo, fare interviste tet-a-tet in video… sono andato ovunque, anche a Hong Kong. Lì ho incontrato il leader delle proteste, Joshua Wong (qui): lavori di questo tipo sono finiti anche in televisione. Questo mi piace molto perché significa che vanno oltre il web, significa tirare fuori la notizia!

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Giulio Gambino intervista Romano Prodi. Bologna, Gennaio 2020. Giulio Gambino ©

Però a me piace sopratutto fare quello che faccio, cioè il direttore: coordinare le persone in un lavoro di squadra, guardare le cose dell’alto e avere un prodotto così, finito. Deve essere tutto scritto meglio degli altri e prima degli altri. È necessario scindere i fatti dalle opinioni, fare scoop e tirare fuori notizie che servano il cittadino. 

Notizie che servano il cittadino? Sì, noi di The Post Internazionale, anche se siamo una testata privata, facciamo un servizio pubblico per i cittadini.

Un esempio? L’inchiesta sulla diffusione del Covid-19 nella Bergamasca, quella che ha portato alla luce i fatti accaduti ad Alzano Lombardo e Nembro il 2 marzo. Io non ho condotto direttamente le ricerche, non sono il titolare dell’inchiesta, ma l’ho coordinata e non c’ho dormito la notte!

The Post Internazionale è una testata giornalistica online dal 2010, com’è nato questo progetto e perché realizzare un giornale online? Cosa ti ha spinto?

The Post Internazionale è nato dieci anni fa quasi per gioco, ero a Londra da tre anni e ci sarei rimasto altri tre anni. 

Com’è diventata una cosa così? Dalla follia!

Non ti rendi mai conto finché ci sei dentro e finché sei te, mentre da fuori le persone la percepiscono come una cosa che esiste e che ha una dignità. Se ci penso, è come se gli ultimi 10 anni fossero stati una volata continua; non ho mai avuto il momento di fermarmi, distaccarmi e guardami indietro.  Quindi non so dirti quale sia il motivo per cui l’ho fatto. 

Probabilmente volevo creare qualcosa di mio e desideravo fare qualcosa legato al giornalismo che fosse diverso. Potevo fare il dipendente di qualunque testata..

Dieci anni fa un giornale online non era una scelta così scontata!? Vedendola oggi, no, non lo era. 

Onestamente, non c’è stata tutta questa scienza. È stato un caso di quello che avevamo, messo insieme… che poi non si è fermato. Buttarsi sul web è stata una chance. E comunque 

Il momento non basta. Devi essere costante e avere perseveranza.

Se una cosa dura un decennio, significa che ha un motivo di esistere. I valori dieci anni fa c’erano, ma niente di tutto questo era chiaro. Non c’è un documento fondativo, però nulla ha animato The Post Internazionale come la passione, la perseveranza e la costanza.  Queste hanno portato la testata ad arrivare dove è oggi, dieci anni dopo. 

Nell’era dei social come credi che cambierà il modo di fare giornalismo e comunicazione?

Cambierà ed è già cambiato.

Obiettivamente cambia perché i social fanno si che tutti -purtroppo e per fortuna- siano giornalisti: tutti possono scrivere di tutto e di più.

Come cambierà non so dirtelo, ma non lo sa nessuno.

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Giulio Gambino sul palco del TPI Fest 2019. Sabaudia, Agosto 2019. Giulio Gambino ©

Senza ombra di dubbio, i social hanno favorito moltissimo l’ascesa di tantissimi giornalisti cosa che prima non sarebbe stata possibile; ma è anche vero che si deve stare attenti perché si rischia di perdere le prerogative e i requisiti di un mestiere. Il rischio è che ci sia una degenerazione dei principi cardine del giornalismo e delle sue regole deontologiche. Si deve fare il giornalismo alla vecchia maniera e si deve approfittare delle piattaforme che il web offre. 

Non si deve comunque dimenticare che noi di TPI  non saremmo potuti nascere, se non avessimo avuto il web!

Il tema più attuale è la pandemia di Covid-19.  TPI se ne occupa costantemente [e tu stesso per la testata], anche accogliendo rivelazioni esclusive. Qual è il tuo punto di vista su questa faccenda?

Questa è una crisi

C’è stato un timore grosso a voler accettare questo allarmismo, la gente non voleva riconoscere la crisi. E di conseguenza c’è stato un contro allarmismo spietato da parte di tutti.

Milano non si ferma“. Magari si fosse fermata! Pensa se non lo avesse mai fatto, cosa sarebbe successo?

Quello che è successo a fine febbraio – inizio marzo è stato brutale. C’è stata una presa di coscienza tardiva. A Wuhan era già capitato tutto e c’era chi aveva capito che questa sarebbe stata una cosa catastrofica, non isolata solo ad alcuni paesi. È rimasto, però, inascoltato. 

Il fallimento iconico di questa crisi è la Lombardia, dove la questione è stata gestita in maniera tragica.

La Lombardia è una regione seria, ci sono merci che si muovono, si fanno scambi commerciali seri e c’è gente da tutto il mondo. Fino al 23 marzo le fabbriche erano ancora attive: gli industriali hanno fatto sì che la produzione non si fermasse. Non hanno chiuso il pronto soccorso di Alzano Lombardo e Nembro. La zona della Bergamasca avrebbe dovuto essere chiusa come Codogno, ma non è stato fatto. Tutto ciò ha portato alla circolazione del virus, rendendo la regione il più grande focolaio d’Europa

Questa telefonata mi ha consentito di conoscere meglio una professione – quella del giornalista – che ho sempre visto filtrata dalla lettura dei quotidiani. Ho compreso come l’obiettivo di Giulio Gambino e di The Post Internazionale sia l’essenza del giornalismo, cioè l’intento di fornire

l’informazione senza giri di parole

Questa telefonata, inoltre, mi ha dimostrato per l’ennesima volta come alla base di ogni lavoro ci siano dedizione e determinazione.

Grazie, quindi, a Giulio che ci ha svelato come scoprire una passione e alimentare una vocazione: costanza e perseveranza devono essere la linfa degli sforzi che facciamo nel portare avanti i nostri progetti!

Caterina Pascale Guidotti Magnani

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