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Letizia Fumagalli, un’infermiera del Covid19

Letizia Fumagalli è un’infermiera Covid-19.

Così viene chiamata, Letizia Fumagalli, come tutti i suoi colleghi. Lavora come infermiera presso il reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale Multimedica di Sesto San Giovanni a Milano e da quanto è scoppiata l’emergenza del Coronavirus, è stata travolta dal vortice.

In questo periodo tutto il personale sanitario è diventato una vera squadra di eroi. Rischiate tutti i giorni per il bene di tutti noi. Non hai mai avuto un momento in cui ti sei pentita del tuo percorso di studio?

Quando ho scelto di diventare un’infermiera non mi sarei mai immaginata di trovarmi, un giorno, ad affrontare un’emergenza sanitaria, di fronteggiare un nemico invisibile in prima linea. Non è stato semplice, non lo è tutt’ora, ma non mi sono mai pentita della scelta che ho fatto. Nonostante gli aspetti negativi, tra cui gli orari folli dei turni, la difficoltà di lavorare ore e ore con i dispositivi di protezione individuale e la lontananza da casa, stiamo mettendo in campo tutte le nostre abilità, conoscenze, competenze e forze per assicurare alle persone ricoverate la miglior assistenza possibile. Collaboriamo, cooperiamo, ci sosteniamo, ci controlliamo mentre ci vestiamo e svestiamo e questo mi rende fiera del lavoro che stiamo facendo. Siamo professionisti sanitari, abbiamo scelto di esserlo, non siamo eroi. 

Quando in ospedale avete avuto la chiara percezione dell’emergenza Covid-19, quindi la consapevolezza del pericolo, qual è la prima cosa a cui hai pensato?

Da inizio marzo la terapia intensiva dove lavoro è interamente dedicata all’assistenza e alla cura dei pazienti con Covid-19 che necessitano di cure intensive e ventilazione invasiva. Il primo turno di lavoro è stato molto insolito, i pazienti arrivavano uno dopo l’altro, in condizioni critiche e in poche ore abbiamo occupato tutti i posti letto. Pazienti anche molto giovani. Finito il turno ero senza parole, non riuscivo a esprimere ciò che provavo, mi sono sentita demoralizzata, impotente di fronte a un’emergenza di queste dimensioni, arrabbiata perché ancora sentivo persone parlare di “una semplice influenza” o ragazzi che non rispettavano le direttive convinti che questo virus colpisse solamente la popolazione più anziana. Non è così, nessuno è immune.  Ma in quanto infermiera mi sono anche sentita fiera di poter dare il mio contributo, orgogliosa del nostro lavoro e di quello di tutti i professionisti sanitari che ogni giorno scelgono di assistere e prendersi cura delle persone.

Cosa ti spinge ogni giorno ad alzarti dal tuo letto per tornare in trincea Covid-19? Non hai paura? Ansia?

Dal giorno in cui ho iniziato a lavorare a contatto con le persone con Covid-19 la mia paura più grande è stata quella di poter accidentalmente contrarre il virus e contagiare i miei cari, perciò a casa, fin da subito, ho adottato le misure necessarie per prevenire un possibile contagio ai miei genitori e mio fratello. Nonostante al lavoro usassi, ed usi tutt’ora i dispositivi di protezione individuale, so bene che il rischio zero non esiste. A casa mantenevo la distanza di sicurezza dai miei familiari, lavavo spesso le mani, mangiavo in una stanza e a orari diversi dai loro, pulivo le superfici con detergenti capaci di eliminare il virus dalle stesse. Dopo qualche giorno, insieme ad una mia collega, che per fortuna è anche la mia migliore amica, abbiamo deciso di andare a vivere insieme in un’altra casa, per proteggere le nostre famiglie.

Quella paura c’è ancora, ma ciò che ogni giorno mi dà forza per alzarmi dal letto e tornare in reparto è la voglia di mettercela tutta per salvare altre vite.

Nell’ultimo mese alcuni pazienti ci hanno lasciato, ma altri fortunatamente sono stati dimessi, sono tornati a casa, ed è esattamente questo che mi spinge ad andare avanti. Ma anche la voglia di tornare quanto prima alla normalità, a vivere a casa mia, abbracciare il mio fidanzato, le mie amiche, la mia famiglia.

Il tuo turno giornaliero quanto dura in più in questo periodo rispetto il normale? Non ti sembra di avere la tua vita sospesa a un filo?

Da inizio marzo oltre che la mia vita personale è cambiata anche la mia vita professionale. Io e i miei colleghi facciamo turni con orari diversi dal solito, a volte ci svegliamo alle 4.30 la mattina o torniamo a casa alla 1 o 2 di notte e per via degli orari saltiamo anche i pasti. Entriamo in reparto con la luce, usciamo che è buio. Prima di entrare in reparto indossiamo i dispositivi di protezione individuale e non li togliamo più fino alla fine del turno. Non possiamo bere, mangiare, andare in bagno, facciamo fatica a respirare per via della mascherina che lascia segni sul nostro volto, la nostra manualità è limitata dalle tre paia di guanti che dobbiamo indossare, il camice ci fa sudare. Anche gli interventi infermieristici più semplici ora risultano complessi. I pazienti necessitano di essere spronati per migliorare la loro ventilazione e questo comporta per noi un grande sforzo fisico. 

Rimaniamo atterriti quando sentiamo che chi muore lo fa da solo in una stanza d’ospedale senza un parente vicino. Quale conforto riuscite a dargli in quegli ultimi istanti?

Il fatto che i pazienti siano soli e se ne vanno senza la possibilità di stringere la mano dei propri cari è drammatico e devastante dal punto di vista psicologico. I parenti delle persone ricoverate sono quasi tutti in quarantena, e quelli che non lo sono non possono entrare in reparto per motivi infettivologici. Non vedono il proprio figlio/a, marito, moglie, sorella, papà, mamma per settimane o, ancor peggio, non li vedranno più. Ogni giorno aspettano l’orario concordato per chiamare in reparto ed avere aggiornamenti sulle condizioni dei propri cari. Non sempre le notizie sono positive. Noi cerchiamo di fare da tramite, di portare ai pazienti svegli e non più sedati i loro messaggi. A volte i parenti ci mandano delle loro foto da far vedere ai loro cari ricoverati. Le attacchiamo ai muri vicino ai loro letti. Nonostante le tre paia di guanti stringiamo forte le loro mani, gli sorridiamo dietro la mascherina, comunichiamo con gli sguardi, cerchiamo di dar loro parole di conforto. 

 

Letizia Fumagalli

Sul tuo profilo privato Instagram hai pubblicato un bellissimo selfie insieme ad una tua collega. Siete sorridenti, avete i segni della mascherina sul viso e hai scritto una bellissima didascalia. Dove riesci a trovare l’ottimismo e a vedere quel bicchiere mezzo pieno?

Grazie di cuore per le belle parole. Devo essere sincera, cerco sempre di farmi vedere forte e positiva, ma ultimamente quei momenti sono sempre più rari. In questi momenti trovo l’ottimismo grazie alla mia famiglia, che nonostante la lontananza fisica non ha mai smesso di starmi vicina con parole di supporto e di incoraggiamento. Grazie al mio fidanzato che riesce sempre a strapparmi un sorriso. Alle mie amiche che mi scrivono ogni giorno. Ai miei colleghi che mi danno sostegno in reparto nei momenti più difficili. 

È passato più di un mese dall’annuncio di chiusura di Giuseppe Conte. Iniziate a vedere qualche margine di miglioramento rispetto le prime settimane?

Purtroppo, nel nostro reparto la situazione è ancora drammatica. Quando dimettiamo un paziente occupiamo il posto letto dopo poche ore. Tra i pazienti ricoverati ci sono persone molto giovani, che da giorni versano in condizioni critiche. 

Cosa vorresti dire a quelle persone che non rispettano le regole, che superficialmente escono di casa una volta al giorno con la scusa di fare la spesa o comprare chissà quale bene di prima necessità?

A tutte le persone che non rispettano le direttive ed escono di casa senza che ci sia una reale necessità, vorrei dire di uscire dall’ottica del “tanto a me non succede”. Di smetterla di pensare solo a sé stessi, ma di iniziare anche a pensare a proteggere gli altri. Ogni giorno muoiono centinaia di persone e tra questi anche medici e infermieri, è terribile. Se vogliamo uscire da questa situazione il prima possibile ognuno deve fare la propria parte. Stare in casa non è una punizione, non siamo rinchiusi, siamo al sicuro a casa.

Grazie Letizia Fumagalli per averci dedicato un po’ del tuo tempo, per aver riportato la tua esperienza più diretta. Forse le tue parole possono davvero cambiare qualcosa nella coscienza delle persone.

Francesca Cirianni

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